AntonioRigoRighetti

ANTONIO “RIGO” RIGHETTI
Dal basso di Ligabue a scrittore di successo

AntonioRigoRighetti

Antonio “Rigo” Righetti è molto conosciuto per aver collaborato per anni con Luciano Ligabue che ha avuto il piacere di farsi accompagnare non solo da un semplice bassista, ma da un artista che dietro al groove nasconde una sensibilità che va oltre una linea di basso. Pochi sanno che ha all’attivo due dischi solisti (e il terzo in uscita a maggio) e addirittura un libro, “Autoscatto in 4/4”, in cui racconta storie nelle storie come in un gioco di scatole cinesi, alterna racconti a storie vissute sulla propria pelle oltre a vari aneddoti sulla vita di musicisti che lo hanno ispirato.

 


ANTONIO “RIGO” RIGHETTI
Dal basso di Ligabue a scrittore di successo

 

Antonio “Rigo” Righetti è molto conosciuto per aver collaborato per anni con Luciano Ligabue che ha avuto il piacere di farsi accompagnare non solo da un semplice bassista, ma da un artista che dietro al groove nasconde una sensibilità che va oltre una linea di basso. Pochi sanno che ha all’attivo due dischi solisti (e il terzo in uscita a maggio) e addirittura un libro, “Autoscatto in 4/4”, in cui racconta storie nelle storie come in un gioco di scatole cinesi, alterna racconti a storie vissute sulla propria pelle oltre a vari aneddoti sulla vita di musicisti che lo hanno ispirato. Il tutto guidato da una sua rivisitazione della storia di Neal Cassidy e Jack Kerouac. Il libro si può acquistare senza spese di spedizione sul sito www.damster.it.

Oggi lo troviamo in veste di scrittore e ho avuto il piacere di parlare con lui a proposito del suo libro prima della presentazione alla FNAC di Porte di Roma; più precisamente diciamo che è stata una chiaccherata tra persone, un confronto che per me arricchisce l’anima di chiunque sia interessato a scoprire cosa c’è dietro la vita di un musicista che ha dato tanto e che continua a dare, guidato solo dall’amore di fare buona musica.

Quali sono i motivi per cui hai deciso di scrivere questo libro?AntonioRigoRighetti
La scrittura per me nasce prima ancora della musica, è una mania che ho da prima che iniziassi a suonare. Nel libro ho parlato dell’importanza di descrivere quello che sento e che vedo viaggiando in continuazione; da qui nascono poi le canzoni che realizzo con il mio gruppo. Il libro nasce all’inizio con una vocazione più narrativa, ma durante la costruzione ha preso un’altra piega. Ha una struttura a “matrioska”: le cose più esterne sono fatti autobiografici ma dentro troviamo una storia che le lega tutte, una rivisitazione di quella di Jack Kerouac e Neal Cassidy (“On the Road”, n.d.r.) ma romanzata da me. Dentro questa ci sono delle storie vere di musicisti che mi hanno influenzato, Elvis Presley, Tom Waits, Bob Dylan e Joe Strummer… Tutti fatti veri.

Raccontacene uno!
Durante il tour di London Calling, a Bologna. Strummer indossò una maglietta delle Brigate Rosse credendo che fosse una band! Io ero là.

Cos’altro è presente nel libro?
C’è un “progetto” sulle camere d’albergo che giravamo durante i tour che poi non ho approfondito: erano tutte uguali e mi divertiva l’idea di serialità delle camere. Ho anche messo un po’ di foto, ma non tutte dato ne ho circa novanta! C’è anche un cd dal vivo, un quartetto con me al basso, Robby Pellati alla batteria, Andrea Garbo e Carlo De Bei alle chitarre. Abbiamo suonato mie canzoni e cover.

Che idea hai sulle cover?
La cover la intendo come un tributo verso chi mi ha ispirato, ma con un’idea diversa da come è stata originariamente suonata: non ha senso rifare le cose uguali, poi non reggeresti il confronto con, che so, lo stesso Elvis se sei un cantante e devi cimentarti con “Heartbreak Hotel”! Allora cerco di rivisitarle in una maniera più stimolante e originale.

Parlaci degli altri tuoi progetti.
A maggio uscirà il mio terzo cd chiamato “Profondo Basso”, di stampo più bassistico rispetto agli altri che ho fatto: sarà un disco “cinematico”, cioè improntato sul creare una colonna sonora di un film che però non esiste. Nel mix lavorerò in modo tale da avere suoni diversi sul mio basso per ogni canzone, come quando negli anni ’80 in una traccia avevi il chorus e suonavi col plettro, in un’altra il fretless, in un’altra ancora cambiavi basso… cosa che con Luciano (Ligabue) non faccio, di solito una volta trovato un bel suono rimanevo su quello per tutto il disco. Un modo diverso di produzione insomma, una sorta di laboratorio. Inoltre nei miei progetti solisti uso molto gli effetti: tremolo (un vecchio Marshall a pedale), chorus, flanger molto vecchio, octaver recente e un delay che mi serve per fare dei loop.
Secondo me in una situazione di trio (basso chitarra e batteria) i colori sono importanti, quindi mi faccio aiutare dagli effetti.

Con chi hai collaborato nel tuo disco?
Le chitarre sono di Fede Poggipollini e con lui ho lavorato per via telematica, cosa per me fantascientifica se penso a quando ho inziato negli anni ’70: dopo aver suonato basso e batteria live (cioè registrare insieme, n.d.r.) ho spedito i files a Fede che mi ha fatto delle chitarre stile Jeff Beck; poi Mauro Pagani (PFM) mi ha fatto tre tracce di violino, fantastiche. Anche Edoardo Bennato con le bellissime armoniche, Max Cottafavi con altre chitarre… Ci saranno comunque dei brani cantanti, ma l’attitudine principale rimane quella di fare un disco più strumentale.

Tu sei anche cantante, come riesci a regolarti mentre suoni?
Beh, quando canto mi trovo meglio a usare il plettro, con le dita ho un po’ più di difficolta. E’ difficile ma poi vedi gente come Sting o Mark King che lo fanno senza problemi… che geni! Sembra che abbiano due cervelli per riuscire a cantare e suonare così bene.

Cosa ne pensi dell’uso della tecnologia della musica?
Secondo me l’uso sfrenato dell’editing sta rovinando un pò l’idea di fare musica, e il fatto di suonare sempre e solo col click mi stà un po’ stretto. Voglio dire, se metti un disco dei Police a metronomo ti accorgi che non sono sempre a tempo, ma siccome suonano insieme allora la musica acquista un altro tiro, più musicale sicuramente. L’importante è stare insieme anche se oscilli leggermente sul tempo, e queste sono tutte sfumature che rendono la musica migliore, secondo me. Inoltre anche l’autotuner sulla voce rovina le cose: pensate se avessero messo il Melodyne sulle voci di Hendrix o Bob Dylan… avrebbero perso genuinità. E stiamo parlando di gente che ha fatto la storia aldilà delle “stonature”, anche per queste cose! Nei miei dischi cerco di evitare queste manie, quando suono ad esempio cerco di fare tutta la traccia di seguito, è l’espressione di quello che senti.
Interplay per me significa andare a tempo e perderlo ma sempre insieme! I pezzi che ho registrato di cui sono più soddisfatto sono quelli che hanno questo oscillare; il battere e il levare non sono cose meccaniche ma espressioni con le quali i musicisti comunicano tra di loro. Col “punch-in” invece avrei spezzetato tutto. Ho letto un articolo su Steve Jordan, grande batterista, che raccontava questa cosa: in un disco pop/soul con Pino Palladino al basso Steve cercava di tirare il rullante indietro mentre Palladino lo spostava in avanti: questo spazio in mezzo crea una tensione che la gente avverte, serve a sottolineare delle emozioni. Magari non è a tempo sul click ma questa è la magia della musica.
Brian Eno poi dice che il mixer è solo uno strumento, se invece il banco utilizza te e ne diventi schiavo allora non va più bene. Purtroppo ora stiamo perdendo il controllo di questo e la musica esce piatta, poi ci credo che c’è crisi artistica!

Comunque ti capita di utlizzare cose del genere?
Guarda, uso programmi come Reason ma solo per avere dei suoni elettronici che con Reason riesco ad ottenere, poi se voglio avere certe sfumature cerco di rimanere nella purezza della musica, non voglio diventare schiavo dell’editing o dell’esagerata manipolazione di suoni che rovinano quello originale.

Parlaci ora del prossimo appuntamento a Campovolo per quest’estate.
A Campovolo faremo una partecipazione con “La Banda”: io, Mel, Fede, Robby e Luciano, a distanza di qualche anno dalla prima volta. Speriamo di risolvere i problemi dell’altra volta in cui avevamo vari palchi e impianti e i suoni si sovrapponevano… stavolta avremo un palco solo e speriamo che sarà divertente!

Le tue influenze musicali?
Sono cresciuto in un’epoca dorata, ho avuto la fortuna di seguire dal vivo Clash, Springsteen, Pastorius sia solista che con i Weather Report, Stanley Clarke, Level 42, Simple Minds, Stranglers… insomma molte band con una forte connotazione ritmica, e da bassista quale sono ovviamente seguivo questa corrente. Secondo me il basso deve ancora esplorare tutte le sue possibilità, cosa che invece forse non si può dire con la chitarra dato che dopo Hendrix, Van Halen, Satriani e altri, molto è già stato detto ed è difficile trovare qualcuno che propone qualcosa di nuovo. Ma poi trovi gente cone Tom Morello che per me è un grandissimo, Marc Ribot col suo disco “Silent Movies”… fortunatamente qualcuno c’è!
I bassisti che mi hanno influenzato sono Jack Bruce, inavvicinabile! Una volta ho aperto un suo concerto e non ho resistito dal farmi autografare la mia copia di ”Fresh Cream”, praticamente ero tornato ai miei 15 anni. Tra l’altro “Sunshine of your Love” è stato il primo brano che mi sono tirato giù col basso.
Ovviamente anche Pastorius, quasi mi vergogno a dirlo dato che stilisticamente siamo molto diffferenti… e io poi non sono mica riuscito ad approfondire lo studio dello strumento come ha fatto lui! Lì siamo su altri livelli… io sono più autodidatta ma comunque suono sempre. Poi James Jamerson e Bob Babbitt della Motown, Donald “Duck” Dunn, George Porter Jr. e molti altri.
Un bassista che continua a stupirmi è Willie Weeks, che per me ha fatto l’assolo più bello della storia su un live di Donny Hathaway: in 4 minuti demolisce l’idea del basso protagonista!
La cosa che ho imparato da loro è la ricerca del suono e del tempo più che le “svisate”, e baso il mio stile su queste componenti fondamentali.

Progetti futuri?
Sto scrivendo il secondo libro che tratterà la storia del basso elettrico in prima persona: è lui che racconta la sua storia, le sue prime jam. C’è l’aneddoto del primo singolo di successo in cui c’è il basso elettrico, un brano di Elvis chiamato “(You’re So Square) Baby I Don’t Care” del ’56: il contrabbassista Bill Black non riusciva a registrare e buttò a terra lo strumento, poi arrivò Elvis che lo prese in mano e lo suonò! Quindi non un bassista vero e proprio ma un cantante! E quel basso lì è a Graceland. Poi quando i Beatles andarono a fargli visita Paul McCartney lo trovò che suonava un basso, e si misero a chiaccherare di quello.
C’è anche una parte umoristica in cui ricostruisco la psico-patologia del bassista: da notare che la canzone di Ligabue “Una vita da mediano” è dedicata non al calciatore ma proprio al bassista, dato che noi siamo i mediani della band!
Poi inizierò anche a produrre il mio quarto disco, ma più in là dato che deve ancora uscire il terzo!
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